venerdì 29 gennaio 2010

Thomas Kuhn E La Struttura Delle Rivoluzioni Scientifiche

Cari lettori,  dopo Karl Raimund Popper: Scienza E Filosofia, pubblico un secondo interessante articolo del professor Enrico Rubetti (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Facoltà di Filosofia), che me lo ha cortesemente inviato.

L'articolo tratta di
Thomas Samuel Kuhn (Cincinnati, 18 luglio 1922 – Cambridge, 17 giugno 1996), storico della scienza e filosofo statunitense. Egli fu un epistemologo che scrisse vari saggi di storia della scienza, sviluppando alcune fondamentali nozioni di filosofia della scienza. Formulò un' epistemologia alternativa a quella dell' empirismo logico e di Karl Popper, suoi principali bersagli polemici.



**********



Kuhn

Thomas Kuhn e la struttura delle rivoluzioni scientifiche



A cura di Enrico Rubetti



1.  Dall’empirismo logico alla nuova epistemologia.

Prendere atto dell’avvento di una “nuova epistemologia scientifica” significa ripensare la Scienza e le sue rivoluzioni.
Oltre al superamento di una visione puramente logico-formale delle teorie scientifiche – gli empiristi logici si sono dimostrati troppo “razionalisti” e poco attenti ai “fatti” della scienza – e a una revisione del rapporto fra teoria ed esperienza, nella quale si tende ad affermare un primato della teoria – cioè il ragionamento ipotetico-deduttivo rispetto ai dati forniti dall’esperienza –, la nuova epistemologia si caratterizza soprattutto per la grande rilevanza assegnata alla dimensione storica che coinvolge le teorie scientifiche, le concezioni culturali e filosofiche di un’epoca, i contesti storico-sociali e culturali in cui quelle teorie vengono alla luce. Si fa più vivo dunque l’interesse per il mutamento delle teorie scientifiche e l’attenzione rivolta alla storia della scienza, alla storia delle teorie, soprattutto ai momenti di rottura epistemologica, di transizione e di passaggio da una teoria all’altra, cioè le cosiddette “rivoluzioni scientifiche”.
L’idea di una più stretta connessione fra saperi scientifici e saperi extrascientifici (etici, estetici, metafisici, etc.) assume un ruolo fondamentale nella tendenza a delineare una visione pluralistica (in taluni casi relativistica) del sapere.

L’attacco all’ortodossia che la nuova epistemologia muove intorno alla questione delle rivoluzioni scientifiche, consiste nella critica della convinzione che la storia della scienza si sviluppi con continuità e che le teorie precedenti confluiscano in quelle successive. I neopositivisti, attenti quasi esclusivamente alla logica della scienza, sembravano avere tacitamente accolto il modello “evolutivo” e “continuistico” (di ispirazione illuminista e positivista) di un avanzamento graduale, progressivo e lineare delle conoscenze, come se queste costituissero un patrimonio che si accresce per accumulazione, secondo una concezione appunto cumulativa della scienza.

A tale modello, pertanto, viene a contrapporsi quello della competizione fra le teorie, da cui deriva la convinzione che la sostituzione di una teoria con l’altra avvenga attraverso passaggi “rivoluzionari”, veri e propri momenti di “rottura”.
Inoltre, grazie anche al nuovo scenario teorico rappresentato dall’elaborazione di Popper, è radicalmente messa in discussione la tesi neopositivista dell’indipendenza degli enunciati osservativi, dei quali sarebbe stato immediatamente possibile accertare la verità. Si afferma, invece, la tesi secondo cui «l’interpretazione di un linguaggio osservativo è determinata dalle teorie che usiamo per spiegare ciò che osserviamo e cambia non appena cambiamo quelle teorie» (Paul Feyerabend).


2.  Pluralità e incommensurabilità delle teorie.

Il primato della teoria sull’esperienza significa anche che il modo con cui guardiamo alle cose, le osserviamo e le descriviamo, dipende dai nostri modelli di “lettura” del mondo e dai problemi di cui cerchiamo la soluzione. In questo senso la nuova epistemologia mette in discussione un altro presupposto fondamentale del neopositivismo e cioè la fiducia in un “modello” di scienza e di metodo scientifico, generale ed univoco.

Viene così esplicitamente negata l’unità della scienza: si afferma che del mondo si possono dare una pluralità di rappresentazioni diverse e incommensurabili. Ma se si ammette una pluralità di concezioni scientifiche, come è possibile stabilire quale delle teorie a confronto sia più valida e accettabile? Sembra molto difficile, se non impossibile, stabilirlo, dato il fatto che esse rispondono a problemi diversi e hanno molti altri elementi non confrontabili. Pertanto, al contrasto e alla controversia viene attribuita molta importanza, perché ad essere riconosciuto come valido, “vero”, è ciò che vince nella controversia.
In tal modo una nozione assoluta di verità viene esclusa dal campo scientifico, sostituita dal confronto e dalla competizione fra teorie diverse. Da qui si può giungere, quasi direttamente, a una conclusione relativistica, caratteristica dell’irrazionalismo a cui sembrano condurre queste concezioni epistemologiche, non esenti da critiche e preoccupazioni crescenti.


3.  Il sistema paradigmatico.

Insieme ad Imre Lakatos e a Paul K. Feyerabend, Thomas S. Kuhn è uno dei più noti epistemologi post-popperiani, che sono venuti sviluppando le loro teorie della scienza sempre a più stretto contatto con la storia della scienza. Al centro degli interessi di Kuhn, in particolare nella sua opera La struttura della rivoluzioni scientifiche (1962), è la storia della scienza non solo come studio specialistico, ma come mezzo particolarmente efficace per comprendere le stesse strutture della scienza. Tale studio richiede una metodologia specifica, autonoma rispetto a quelle della storiografia tradizionale e della filosofia della scienza.

Il problema principale per il filosofo, come per altri epistemologi suoi contemporanei, è quello della “rivoluzione scientifica”. Ma le rivoluzioni scientifiche non sorgono in base a verifiche (come pensavano positivisti e neopositivisti) e neppure in base a una o più falsificazioni (come pensava Popper), bensì con la sostituzione di un paradigma all’altro. 
Ma che cos’è un paradigma?

«Con tale termine – dice Kuhn – voglio indicare conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca». In altre parole il filosofo, servendosi di questo concetto, vuole indicare una struttura composita, formata da credenze e assunti metafisici, oltre che da modelli scientifici di spiegazione. Si tratta di un complesso di principi, concezioni culturali e scientifiche universalmente riconosciute, procedimenti metodologici, modalità di comunicazione e trasmissione delle teorie, a cui si ispira il lavoro della “comunità scientifica” di una data epoca. Esso è strettamente ancorato a condizioni e a fattori extrascientifici, cioè sociali e psicologici, e non è quindi un modello “puro”, astorico e astratto.

L’astronomia tolemaica (o quella copernicana), la dinamica aristotelica (o quella newtoniana) sono esempi di paradigmi: lo studio di tali paradigmi «prepara lo studente a diventare membro della particolare comunità scientifica con la quale più tardi dovrà collaborare». Su questa linea, al concetto di paradigma Kuhn collega quello della comunità scientifica, costituita da coloro che, possedendo un paradigma comune, condividono un insieme di valori scientifici ed etici, hanno in comune criteri di giudizio, problemi, modelli interpretativi (anche di tipo metafisico), metodi e vie di soluzione per risolvere quei problemi e concordano, infine, sulla necessità che i loro successori siano educati in base agli stessi contenuti e valori.


4.  Scienza normale e scienza straordinaria.

È l’accettazione di un paradigma, dunque, a costituire e a definire la comunità scientifica, la quale, all’interno degli assunti paradigmatici, effettuerà quella che Kuhn chiama scienza normale: «una ricerca stabilmente fondata su uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore». E questa prassi ulteriore sta nel tentare de realizzare le promesse del paradigma, determinando i fatti rilevanti (per il paradigma), confrontando i fatti con la teoria, e articolando la teoria stessa. Tale procedimento è finalizzato a risolvere una massa crescente di “rompicapo” (o Puzzles), ossia problemi teorici irrisolti, per formulare leggi quantitative che articolano ulteriormente il paradigma. L’attività di ricerca è essenzialmente cumulativa, si svolge mediante una raccolta di dati e una loro catalogazione entro schemi prefissati. La scienza normale è dunque un’impresa conservatrice.

Tuttavia la ricerca scientifica mette continuamente in luce fenomeni nuovi ed insospettati. Ciò accade per la ragione che, ad un certo momento, la comunità scientifica prende coscienza di un’anomalia, di un problema che sfida gli assunti centrali del paradigma e che costringe la comunità degli scienziati a sostituire il vecchio paradigma con un altro: questa è una rivoluzione scientifica, che si attua mediante la scienza straordinaria. Gli scienziati, di fronte alla massa di rompicapo che non riescono a risolvere con l’applicazione di quel paradigma, mettono in dubbio i principi fino a quel momento seguiti e accettati come “dogmi”, e vanno alla ricerca di un paradigma nuovo, incommensurabile (o “incompatibile”) con quello precedente.

Non vi può essere confronto tra i due paradigmi, perché a seconda del quadro teorico muta il significato attribuito alle osservazioni empiriche e agli esperimenti che dovrebbero confermare o falsificare il modello in questione.


5.  Il passaggio da un “paradigma” ad un altro “paradigma”.

I tempi di una rivoluzione possono anche essere lunghissimi. Ma quando essa avviene è come se si entrasse in un nuovo mondo: «quando mutano i paradigmi, il mondo stesso cambia con essi». È il paradigma, il punto di vista, il quadro concettuale, il “mondo”, a risultare mutato. Occorre quindi ripensare tutto: concetti-base, metodi, problemi. Un abisso di incomprensione si spalanca fra i sostenitori di due paradigmi differenti. Non ci si comprende più, non si comunica più. Si hanno concezioni del mondo diverse, anche metafisiche diverse.

Il passaggio da un paradigma all’altro segna una trasformazione del modo di vedere le cose. I dati che si hanno a disposizione sono magari gli stessi di prima, eppure vengono interpretati in modo diverso, cioè vengono posti in una relazione diversa da quella precendente. Inoltre il passaggio non sempre avviene per ragioni empiriche o logiche; possono esservi delle ragioni extrascientifiche e non razionali: ad esempio idiosincrasie tra scienziati, appartenenza a scuole scientifiche di nazioni diverse, persino ragioni estetiche diverse (il fatto che una soluzione appaia più “semplice” ed “elegante”).

Il nuovo paradigma affermatosi viene progressivamente esteso a ogni disciplina e ad ogni campo del sapere, determinando un nuovo periodo di “scienza normale”: fino al momento in cui anche tale paradigma genererà anomalie e rompicapi, e solleciterà la sua sostituzione.
Ogni teoria non va studiata e considerata a sé, o in relazione al suo grado verificabilità o falsificabilità, ma solo in riferimento al paradigma in cui entra. Esso costituisce il suo ambito di validità, che non è assoluto ma relativo.


6.  Il progresso ateleologico della scienza.

Il passaggio da un paradigma ad un altro comporta un progresso? Certo, quando un paradigma si è affermato, i suoi sostenitori guarderanno ad esso come a un progresso; ma, si chiede Kuhn, progresso verso cosa? Il processo che si vede nell’evolversi della scienza è un processo di evoluzione a partire da stadi primitivi, ma questo non significa che tale processo porti la ricerca sempre più vicina alla verità o verso qualcosa.

«Ma è poi necessario – egli si chiede – che esista un tale scopo?». È veramente d’aiuto immaginare che esista qualche completa, oggettiva, vera spiegazione della natura (e forse della realtà) e che la misura appropriata della conquista scientifica è la misura in cui essa si avvicina a questo scopo finale?
Di fronte a tali irrisolvibili quesiti, il carattere provvisorio delle teorie scientifiche proposto da Popper e da Kuhn, e la conseguente coscienza di una sostanziale indeterminabilità (o “vacuità”) che permea il nostro universo dimensionale, conducono quasi direttamente a una concezione relativistica della realtà. E come nell’evoluzione biologica, così nell’evoluzione della scienza, ci troviamo davanti ad un processo che si sviluppa costantemente a partire da stadi primitivi, ma che non tende verso nessuno scopo.


7.  Conclusioni: un confronto con Popper e Lakatos.

Secondo Kuhn, i manuali scientifici mascherano la crescita della scienza per rivoluzioni. In tal senso, una delle critiche principali che egli rivolge al sistema delle «confutazioni» popperiane consiste nel fatto che esse, all’interno della storia della scienza, possono spesso sembrare «parti normali di un processo di sviluppo». Ciò significa che una particolare teoria, elaborata da un gruppo localizzato di specialisti, viene abbandonata così rapidamente da non indurre nella comunità scientifica il senso di una crisi generale; e allora ne consegue che, rispetto alla teoria kuhniana, quelle che dovrebbero essere grandi rivoluzioni vengono talora rappresentate come innocue correzioni di idee precedenti. Kuhn si scaglia quindi fortemente contro la tendenza, diffusa fra gli scienziati e tra gli stessi autori dei manuali, a fare apparire la storia della scienza come un processo lineare e cumulativo. E per questo col suo metodo finisce per prospettare una combinazione tra storia disciplinare e storia delle idee, in base alla quale gli insiemi di convinzioni, concetti, teorie e metodi rientrano nell’idea, più ampia e articolata, di «paradigmi», i quali a loro volta contribuiscono a dare una struttura unitaria alla molteplicità apparentemente disarticolata dei risultati che di volta in volta sorgono dal progresso scientifico.

Perciò da un lato tali «risultati» saranno sufficientemente nuovi per attrarre uno stabile gruppo di seguaci – studiosi, ricercatori e sostenitori di tali idee –, distogliendo da forme di attività scientifica contrastanti con essi, e dall’altro saranno sufficientemente aperti da lasciare al gruppo di scienziati costituitosi su queste nuove basi la possibilità di risolvere problemi di diversa natura. Poiché se è vero che una rivoluzione consiste precisamente nel passaggio – o nello slittamento radicale – da un paradigma a un altro, allora il concetto stesso di «paradigma» mette in luce che i mutamenti scientifici d’ogni sorta – incluse le rivoluzioni – non sono il risultato di una lotta di idee, bensì di una lotta fra gli scienziati che accettano certe idee o credono in esse.

Questo aspetto psico-sociologico della metodologia di Kuhn si fa sentire maggiormente quando egli sostiene che le rivoluzioni sono in generale caratterizzate dalla crisi di una «tradizione di ricerca», e questo proprio perché un paradigma non è semplicemente un’idea innovativa che sfida la conoscenza di sfondo, ma un’idea incarnata in uno o più testi sui quali si formano generazioni di ricercatori. Infatti, ad esempio, Kuhn mostra come la «rivoluzione copernicana» trascenda Copernico stesso, in quanto è l’adozione graduale delle tesi copernicane e l’esplicitazione di esse – ciò che aumenta la loro rilevanza all’interno della comunità scientifica – a far sì che il De rivolutionibus venga individuato come il testo originario da cui è scaturita la tradizione detta «astronomia copernicana».

Ma qui subentra un problema: è proprio la ricognizione dei testi e dei manuali – detta anche «
criterio del libro» – che spiega il fenomeno della «invisibilità delle rivoluzioni». Solitamente, dice Kuhn, i manuali mirano a informare rapidamente lo studente su quello che la comunità scientifica di una data epoca pensa di sapere, sicché la deformazione che essi inducono nel lettore consiste nel dare l’impressione che anche i ricercatori che hanno operato prima dell’avvento di quel particolare paradigma abbiano rivolto i loro sforzi verso gli argomenti particolari che in tale paradigma sono stati incorporati. E così nasce lo stereotipo della scienza come «sapere cumulativo», ciò che propriamente secondo Kuhn maschera la crescita della scienza per rivoluzioni.

Alla luce delle accuse ricevute per via della questione sull’«
incommensurabilità delle teorie» – ossia dell’incompatibilità di significato e di riferimento tra teorie appartenenti a diversi (e dunque contrastanti) paradigmi; il che desterebbe forti perplessità, soprattutto con l’insinuarsi di un «relativismo» che minerebbe la coerenza metodologica dell’epistemolgia kuhniana –, e per spiegare il suo dissenso da Popper, Kuhn mostra – attraverso il suo cosiddetto argomento «anatra-coniglio» – come non si possano capire né la scienza né lo sviluppo della conoscenza se si considera la ricerca esclusivamente attraverso le rivoluzioni che essa occasionalmente produce.

 Ad esempio, benché il controllo degli impegni di fondo abbia luogo soltanto nella scienza straordinaria, è la scienza normale a scoprire sia i punti da controllare sia le modalità di controllo. Perciò, in tal senso, è proprio l’abbandono del «discorso critico» – quello della scienza straordinaria – che segna la transizione a una nuova scienza (normale). Tuttavia, Kuhn non identifica la sue «
esperienze anomale» – che segnano il passaggio dalla scienza normale a quella straordinaria, nonché il salto da un paradigma a un altro – con le «esperienze falsificanti» di Popper.

Per Kuhn, nessuna teoria – in senso popperiano, ossia l’insieme degli asserti falsificabili – risolve mai tutti i «
rompicapo» in cui si imbatte. Ci sono, in realtà, pretese esperienze falsificanti che non solo non ostacolano la pubblicazione dell’opera del «fondatore» di una data teoria scientifica, ma nemmeno vengono prese immediatamente in considerazione dai suoi seguaci. Inoltre, le soluzioni proposte ai problemi che affrontano una data teoria sono spesso insoddisfacenti; ma sono proprio l’incompletezza e l’imperfezione dell’accordo esistente tra dati e teoria che, in un certo momento, definisco molti dei rompicapo che caratterizzano la scienza normale – per questo per lo storico sarebbe davvero poco interessante ricercare se una teoria abbia o no conseguito un accordo perfetto coi fatti pertinenti. Si supponga allora, conclude Kuhn, che sia sufficiente un qualsiasi insuccesso per abbandonare una teoria: tutte le teorie dovrebbero venire abbandonate a ogni momento.

Per poter falsificare una teoria occorrerebbe dunque in qualche modo indicare i margini di errore tollerabile. Diversamente stanno invece le cose quando due o più teorie vengono considerate collettivamente; allora e solo allora sarà legittimo chiedersi quale di due teorie determinate e in competizione fra loro si adatti meglio ai fatti. Su una cosa Kuhn e Popper si trovano d’accordo: una buona teoria non andrebbe confutata troppo presto, prima cioè che abbia ottenuto un pieno successo.

Lakatos, invece, non diversamente da Kuhn, rileva che in genere le teorie scientifiche nascono e crescono in un «oceano di anomalie». Tuttavia, egli non pretende di fornire criteri che consentano di affermare istantaneamente che una teoria isolata è falsificata, anzi: basterà limitarsi a prendere in considerazione una serie di teorie, dove ciascuna nuova teoria ha un contenuto empirico addizionale rispetto a quella che la precede: tale serie sarà allora «teoricamente progressiva», e sarà inoltre «empiricamente progressiva» se parte del suo contenuto empirico addizionale è anche corroborato. Così, una teoria T è migliore di una rivale T*, se riceve un sostegno addizionale da più fatti e questa condizione è soddisfatta sia che sia confutata oppure no.

Per il falsificazionismo metodologico «sofisticato» di Lakatos non esiste dunque una «razionalità istantanea» – come per il falsificazionismo «ingenuo» –, ovvero non si abbattono le teorie in modo netto e radicale. La razionalità della scienza è piuttosto un processo di lungo periodo; e i cosiddetti esperimenti cruciali sono «cruciali» solo col senno di poi, ossia retrospettivamente.

Lakatos esprime inoltre la necessità di inventare opportune «ipotesi ausiliare» che formino una cintura protettiva, di stampo «popperiano», attorno ad un nucleo «kuhniano». Ciò significa che la sua metodologia di ricerca dei programmi scientifici non vuole postulare una sorta di «monopolio» da parte di un unico paradigma entro un dato dominio disciplinare; piuttosto essa pone l’accento sulle successive trasformazioni di un punto di vista pur restando immutato il nucleo che garantisce l’unità profonda delle teorie in cui si articola il programma. E la «cintura», composta da ipotesi ausiliarie, teorie osservative, condizioni iniziali, etc., finisce col sostenere «l’urto dei controlli» per mezzo di continui adattamenti e modifiche che conducono a varianti – o approssimazioni, pur sempre «confutabili» – del programma.

In conclusione, da un punto di vista metodologico dei programmi di ricerca scientifici, è possibile mostrare, a mio parere, come il programma di Copernico sia migliore di quello di Tolomeo, proprio perché esso non costituisce – almeno in parte – una decisiva rottura col passato che apre la strada ad un nuovo paradigma del tutto incommensurabile con quello precedente. In realtà, il sistema copernicano compie un passo indietro, prendendo nuovamente le mosse dall’antica ipotesi eliocentrica, sostenuta già dai pitagorici e da Aristarco di Samo. La crescente difficoltà di accordare l’ipotesi geocentrica di Tolomeo – che ormai da secoli si era ipostatizzata senza preoccuparsi troppo di render ragione delle «teorie osservative» sulle quali si fondava – con l’effettiva osservazione dei fenomeni celesti, aveva indotto Copernico ad una significativa rivalutazione della tradizione eliocentrica, la quale veniva posta in stretta relazione con i nuovi «mezzi di osservazione» messi a disposizione dalla sua epoca.

Per Copernico, dunque, non si trattava semplicemente di riconsiderare l’eredità tolemaico-aristotelica sulla base dei fenomeni osservati o del principio della «relatività del moto», bensì di «ricostruire» le ipotesi anche in riferimento ad un preciso «sfondo teorico» – ossia quello della teoria eliocentrica –, che sarebbe poi stato sottoposto al controllo empirico dei fenomeni osservati non tanto per accertarne il grado di «falsificabilità», quanto per vedere se tale metodo avrebbe portato ad un effettivo accrescimento della conoscenza scientifica. E nonostante ciò Copernico accettava diversi aspetti della già consolidata teoria geocentrica – come l’esistenza delle sfere celesti e la finitezza dell’universo delimitato dal cielo immobile delle stelle fisse –, la quale a suo tempo aveva invece assertivamente scartato, almeno sul piano metodologico, ogni possibile obiezione.

12 commenti:

  1. Un articolo molto impegnativo su un autore non facile. Mi è piaciuto molto anche se mi sento vicina a Popper che Kuhn critica...

    Grazie
    arte

    RispondiElimina
  2. Di fronte a tali irrisolvibili quesiti, il carattere provvisorio delle teorie scientifiche proposto da Popper e da Kuhn, e la conseguente coscienza di una sostanziale indeterminabilità (o “vacuità”) che permea il nostro universo dimensionale, conducono quasi direttamente a una concezione relativistica della realtà. E come nell’evoluzione biologica, così nell’evoluzione della scienza, ci troviamo davanti ad un processo che si sviluppa costantemente a partire da stadi primitivi, ma che non tende verso nessuno scopo.

    Non riesco ad essere d'accordo con tale affermazione. Comprendo che è una conclusione insita nel pensiero di Kuhn, ma non la condivido.

    Complimenti al prof. Rubetti. per la chiarezza.

    Bacioni
    Ruben

    RispondiElimina
  3. Rosaria : ho letto  tutto attentamente e dopo aver letto.
    ho capito solo una cosa, che la scienza, è una materia assai
    "rompicapo"
    Buona Domenica.
    Bacio

    RispondiElimina
  4. La scienza procede casualmente... a volte vegono compiuti piccoli passi, coerenti, accumulativi, altre volte veri e propri balzi giganteschi, rivoluzioni epocali.
    A volte, addirittura, una scoperta avviene in maniera assolutamente fortuita, come la penicillina da parte di Fleming, anche se spesso i tempi "erano maturi" .

    E' vero che una teoria assume il ruolo di paradigma: si viene a costituire una specie di setta, e gli scienziati che vi aderiscono a volte eccedono nel difenderla.
    Darwinisti contro Lamarckiani, teorie eliocentriche o geocentriche, l'importanza relativa dell'ambiente versus i fattori ereditari... gli esempi sono infiniti.
    Pensate per esempio al global warming, ed alle implicazioni politiche, economiche e non solo meramente "conoscitive" che comporta.

    La storia della scienza è piena di guerre all'ultimo sangue fra teorie contrapposte, fino a che, col tempo, una delle due lascia il campo.
    Può però succedere che nuovi "fatti", nuovi esperimenti, ridiano forza ad una teoria considerata sorpassata, come l'esempio citato nell'articolo  di "recupero" della teoria eliocentrica "già" avanzata addirittura dai pitagorici.

    Per quanto riguarda l'epistemiologia, come filosofia della scienza, se è vero che ogni teoria ha dei fatti non spiegati, e che quindi tutte potrebbero essere a rigore "false", dal punto di vista pratico, lo scienziato cerca di mediare, di accettare quella teoria che spiega la maggioranza dei fatti noti, o almeno i più rappresentativi.

    Lo scienziato, alla fine, va per la sua strada, anche se piena di dubbi. Il filosofo non dovrebbe arrancargli dietro... anche se, forse, il circolo dei pensieri possibili, il cerchio della metafisica, si è chiuso per sempre.

    Andrea

    RispondiElimina
  5. Arte, parole sacrosante. Sono d'accordo. Grazie.
    annarita

    RispondiElimina
  6. Ruben, è giusto esprimere il proprio punto di vista.

    Grazie del commento.
    annarita

    RispondiElimina
  7. Anonimo n.4, grazie  di aver trovato interessante l'articolo.

    A presto.
    annarita

    RispondiElimina
  8. Ciao, Andrea. Leggo con piacere il tuo secondo commento. Il tuo punto di vista è equilbrato e competente.
    Grazie di aver partecipato.

    Ti aspetto ancora,
    annarita

    RispondiElimina
  9. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Come precisato nell'introduzione, autore di questo articolo è il professor Enrico Rubetti (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Facoltà di Filosofia), che me lo ha cortesemente inviato.

      Lo informerò di questo commento...Lei è al corrente che si può risalire alla sua vera identità? Sulla rete rimangono sempre delle tracce per chi ha i mezzi per leggerle. Buona fortuna!

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    2. Il commento eliminato da Davide Maino è il seguente:

      "La filosofia della scienza nel XX secolo D. Gillies, G. Giorello e chissà da quali altri testi hai copiato, si poteva almeno cambiare qualche parola ahahahah".

      Lo stesso mi ha contattato su Twitter in queste ore.

      Elimina

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